Nella conferenza internazionale sull’Afghanistan che
si è svolta l'8 luglio a Tokyo, il governo afgano e la comunità internazionale
hanno definito i reciproci impegni per gli anni successivi al 2014, data in cui
avrà termine la presenza militare della missione Isaf. Si sta infatti
completando già in questi mesi la fase di "transizione", con il 75%
del territorio passato a maggio sotto il controllo delle Afghan National
Security Forces, e si fa reale la prospettiva di affidare loro la guida
della sicurezza complessiva del paese entro la metà del 2013, per poter
completare il ritiro - già avviato - delle forze internazionali entro il 2014.
Fragili successi
Si aprirà allora quella che viene definita la "transformation
decade", quei dieci anni che, a partire dal 2015, dovrebbero vedere il
volto dell'Afghanistan cambiare per opera degli stessi afghani. Si tratterà
innanzitutto di consolidare e rafforzare i risultati che, pur con
contraddizioni e limiti del tutto evidenti, sono stati ottenuti negli ultimi
dieci anni, sia in termini di sicurezza e lotta alla corruzione, sia sul
versante della capacità di sviluppo economico, sia - soprattutto - sul fronte
più delicato e strategicamente vitale dell'affermazione e del rispetto dei
diritti umani, a partire da quelli delle donne e dei bambini.
È un terreno sul quale molto è cambiato, negli ultimi dieci anni:
l'approvazione della nuova Costituzione che sancisce i diritti di uomini e
donne; la legge per l'eliminazione della violenza contro le donne (Evaw);
l'adozione di un piano d'azione nazionale per le donne; la nascita del
ministero per l'uguaglianza di genere e i diritti delle donne; la nascita di
numerose case rifugio per donne vittime di violenza; e, last but not least,
il 27% di donne elette in parlamento alle ultime elezioni.
Sono però risultati non solo parziali, frammentati, ma anche molto
fragili, da cui può essere molto facile e veloce tornare indietro. Lo
dimostrano i dati che con un lavoro prezioso hanno raccolto alcune
organizzazioni internazionali: Human Rights Watch ci racconta di nove
donne su dieci di età superiore ai 15 anni ancora analfabete; per Global
Rights, 87 donne afghane su 100 hanno subito almeno una forma di violenza
domestica, con un tasso di mortalità tra i più alti del mondo.
Ma il dato che più dovrebbe far riflettere è quello relativo alla
percezione di insicurezza, il timore di veder cancellate le proprie conquiste -
così faticosamente raggiunte: un'indagine condotta nel corso del 2011 da ActionAid
indica che se due terzi delle donne in Afghanistan ritiene che la propria
condizione sia migliorata negli ultimi dieci anni, nove su dieci temono il
ritorno di un regime talebano, e un terzo teme il momento in cui le forze
militari di Isaf lasceranno il paese.
Più impegno
Sono paure che non si possono ignorare. Il punto è
quindi, ora, fare in modo che non siano gli anelli deboli della catena sociale
e politica dell'Afghanistan - le donne e i bambini - a pagare il prezzo di una
"riconciliazione" che si preannuncia complicata. Non a caso, nel
corso della Conferenza di Tokyo, l'Italia ha dovuto insistere non poco perché
fosse inserito nel documento finale un riferimento esplicito al raggiungimento
e mantenimento degli standard internazionali relativi ai diritti umani ed in
particolare a quelli delle donne, legando con una formula di condizionalità il
mantenimento degli impegni dei donatori a questo obiettivo.
L’Italia ha potuto farlo grazie ad una sinergia di fattori:
innanzitutto l'approvazione, da parte della Commissione esteri della Camera, di
una risoluzione che impegnava il governo italiano ad una posizione ferma su
questo tema in occasione della Conferenza di Tokyo; il fatto di aver firmato,
già a gennaio, un Accordo sul partenariato e la cooperazione di lungo periodo
tra Italia e Afghanistan che oggi è all'attenzione della Camera per la
ratifica; la credibilità che il nostro paese ha assunto nel campo del lavoro
con la società civile afghana, soprattutto grazie all'esperienza preziosa di
"Afgana", una rete di associazioni ed Ong italiane che ha lavorato in
questi anni in strettissimo raccordo con le controparti locali, appoggiate dal
lungimirante sostegno della Farnesina.
Probabilmente ha giocato un ruolo non del tutto secondario anche il
profilo del sottosegretario Staffan De Mistura, che rappresentava l'Italia alla
Conferenza forte non solo di un netto mandato parlamentare, ma anche di una
competenza ed una credibilità personali non comuni.
Ma il buon esito della Conferenza, che dà concretezza agli impegni già
presi in dicembre a Bonn e più recentemente al G8 di Camp David ed al vertice
Nato di Chicago, non devono far perdere di vista le difficoltà ed i rischi che
già si profilano all'orizzonte: che i diritti umani, e quelli di donne e
bambini in particolare, siano facile moneta di scambio per una riconciliazione
nazionale che serve a Karzai per consolidare la fase di transizione, e serve
alla comunità internazionale per poter uscire dignitosamente e nei tempi
stabiliti da una missione militare dal segno controverso.
Democrazia
È cruciale quindi che la parola d'ordine della comunità internazionale
non sia ora "disimpegno", ma un impegno ancor più forte, seppure di
segno diverso: sempre meno militare, sempre più politico, diplomatico e civile,
a sostegno dei processi di democratizzazione e di sviluppo economico e sociale
che dovrebbero caratterizzare la "transformation Decade". Non
si tratta di buoni sentimenti, ma di capire che solo un Afghanistan saldo nei
suoi principi democratici e solido nei suoi meccanismi di promozione e
protezione di diritti umani può costituire un argine efficace alle minacce alla
sicurezza che abbiamo già conosciuto in passato.
Articolo pubblicato su AffarInternazionali