Tradizionalmente, sul tema della partecipazione italiana alle missioni internazionali si esibisce la continuità.
Quasi che restare saldi nel solco tracciato da chi “c’era prima” fosse di per sé un valore. Forse perché questo è stato, finora, l’unico modo per evocare un consenso trasversale, bipartisan. Ma oggi, con un governo che non ha radici nei partiti ed un inedito sostegno parlamentare – trasversale per nascita, libero negli orientamenti per aspirazione – proclamare la continuità non serve più. E così, al netto di qualche arrampicata sugli specchi che tenta Frattini (in preda ad un’imbarazzante crisi di ruolo che lo porta a fare il relatore parlamentare di un provvedimento che fino a due mesi fa firmava da ministro) e che La Russa per una volta si risparmia, la discontinuità è libera di venire allo scoperto. Cosa c’è di così diverso, in questo decreto missioni? Molte cose, alcune fondamentali. Innanzitutto una piccola grande formalità: dopo tre anni di frammentazione del finanziamento, che era arrivato a volte a coprire anche solo uno o due mesi, il decreto dà ai militari e ai civili italiani che operano in teatri di crisi – ed ai nostri partner internazionali – un anno di certezze, rifinanziando quel fondo missioni che il governo Berlusconi aveva di fatto abolito. Sembra un dettaglio, ma è un grande segnale di affidabilità e serietà – che, di questi tempi, non guasta. Poi, due grandi affermazioni di principio: da una parte la necessità di un approccio “integrato” alla sicurezza – ovvero non solo militare ma anche e soprattutto diplomatico, civile, attento ai fattori di sviluppo economico e all’affermazione dei diritti umani. Dall’altro, l’esigenza non più rinviabile di procedere speditamente sulla via dell’integrazione europea nel campo della difesa. Se si pensa alla sufficienza con la quale La Russa trattava questi temi, la discontinuità appare in tutta la sua evidenza. Ma entriamo nel merito: si tagliano quasi duecento milioni rispetto al 2011, facendo delle scelte selettive – l’opposto della logica dei tagli lineari cari a Tremonti. Cresce l’investimento in cooperazione civile, sia nel teatro dell’Afghanistan e del Pakistan sia nelle altre aree di crisi: 22 milioni in più non sono un’enormità, ma in rapporto ai fondi quasi inesistenti della cooperazione non sono pochi e, soprattutto, invertire la tendenza in un anno di difficoltà di bilancio come questo è un grande segale politico. Si rifinanzia, con un incremento, il fondo per lo sminamento. Parallelamente, diminuisce la spesa per la componente militare delle missioni, ma con delle scelte selettive. Cala di circa 200 unità la presenza militare in Afghanistan, coerentemente con il progressivo passaggio di consegne alle autorità afghane in molte zone del paese e con la riduzione degli altri contingenti Isaf; si pone termine ad alcune missioni minori, ormai esaurite dal punto di vista militare – come in Iraq, dove restano in piedi solo progetti di cooperazione civile; in Libano, pur assumendo il comando della missione Onu, si riduce il numero dei militari, ma meno di quanto prevedesse di fare il precedente governo – in virtù della maggiore instabilità dell’area che dal confine Libano-israeliano si estende fino alla Siria. E poi, si sceglie di aumentare la presenza militare in aree strategiche per l’Italia e per l’Europa, dove il nostro valore aggiunto è riconosciuto sia dagli interlocutori locali sia dalle organizzazioni internazionali, e dove il rapporto costi-benefici è più alto: penso ai Balcani, di cui il precedente governo si era scarsamente occupato, o al sud Sudan. Infine – last but not least – la Libia. Delle contraddizioni del governo Berlusconi è difficile dimenticarsi, dal baciamano in poi. Il governo Monti non può che avere tra i suoi obiettivi principali quello di ricostruire una credibilità perduta anche qui, nel mediterraneo, con quei paesi oggi impegnati in transizioni difficili e non univoche – dall’Egitto alla Tunisia, passando per la Libia, dove Monti sarà in visita ufficiale domani. Finito, mesi fa, l’intervento militare, oggi è prioritario dare seguito alle altre, successive risoluzioni delle Nazioni Unite: sostenere la nuova Libia nel momento più critico, quello della ricostruzione, della riconciliazione nazionale, della formazione di una struttura amministrativa e delle forze di polizia, dello sminamento del territorio e della bonifica dall’enorme quantità di armi in circolazione nel paese. Per questo prevedere già per il 2012 un impegno, seppur minimo e ancora molto flessibile, di assistenza civile e militare alla complicata e delicata fase di costruzione della nuova Libia è una scelta saggia e lungimirante, che ben si accompagna alla volontà di recuperare un ruolo credibile e positivo nella regione del mediterraneo. Dalle prossime settimane, superato il passaggio di ridefinizione della nostra partecipazione alle missioni internazionali, andranno affrontate altre ed altrettanto importanti questioni, a cominciare dalla revisione del sistema di difesa e, conseguentemente, della razionale allocazione delle risorse tra le diverse voci di bilancio, per finire con la rimodulazione di alcune scelte sulla produzione e l’acquisto dei sistemi d’arma – compresi gli f35. Il ministro Di Paola ha giustamente indicato nella prossima riunione del consiglio supremo di difesa prevista per l’8 febbraio un passaggio cruciale per questo processo. Toccherà contestualmente al governo e
al parlamento svolgere una revisione del sistema di difesa che sia complessiva, razionale e trasparente.
Articolo pubblicato su "Europa" sabato 21 gennaio 2012
In questi giorni si sono tenute le audizioni dei nuovi ministri presso le commissioni parlamentari competenti, per illustrare e discutere le linee programmatiche del governo. Nel settore della difesa i cambiamenti sono molti e rilevanti, e non riguardano solo il livello di competenza del ministro. Già il fatto che la continuità evocata non riguardi solo l’ultimo governo ma si riferisca agli ultimi sei ministri, da Andreatta in poi, dice molto del cambio di impostazione: la politica di difesa viene strappata dal limbo di retorica partigiana in cui l’aveva scioccamente voluta confinare La Russa, e tenta di navigare nel mare aperto dell’interesse nazionale, dell’impostazione istituzionale.
Molte e rilevanti novità, dicevo. Innanzitutto, l’esplicita consapevolezza che il sistema di difesa che abbiamo oggi, per risorse e per numeri, non è sostenibile e quindi va profondamente rivisto. Questo significa che finirà l’epoca dei tagli lineari, che in questi anni hanno schivato la responsabilità di un ripensamento complessivo del modello, compromettendo il funzionamento del sistema.
Si potrà, forse, finalmente ragionare senza preconcetti sulle reali necessità che il nostro paese ha nel settore della difesa, anche in relazione al suo ruolo globale, e sul modo migliore, più razionale, di fronteggiarle. Questo significa adottare un approccio realistico, determinare priorità, seguirle coerentemente.
In questo percorso, è probabile ed auspicabile che siano ridiscussi programmi d’investimento e di acquisizione dei sistemi d’arma, tra cui anche quello relativo agli F35 – sul quale il governo Berlusconi ha agito nella più totale confusione e assenza di trasparenza, a fronte di sviluppi internazionali importanti che l’Italia ha sostanzialmente ignorato.
In secondo luogo, il nuovo governo ha manifestato un cambio di impostazione importante per le missioni internazionali – nel metodo e nel merito. Nel merito, si sceglie di investire in quelle missioni di stabilizzazione di aree per noi strategiche – i Balcani, in particolare Kosovo e Bosnia, ed il Libano con la sua vicinanza strategica a Siria e Israele – che il precedente governo aveva deciso di ridimensionare fino a renderle via via quasi irrilevanti.
Sono missioni a minore intensità e visibilità, dove però i risultati raggiunti in anni di presenza internazionale sono ancora fragili, ed un eventuale destabilizzazione porterebbe conseguenze critiche per aree vaste e di interesse strategico per l’Europa e per il nostro paese. Sono missioni in cui il valore aggiunto dell’Italia è universalmente riconosciuto – dalle Nazioni Unite, dalla Nato, dalle istituzioni e dalle popolazioni locali –, ed il rapporto costi/benefici massimo.
C’è, poi, la consapevolezza che la vicenda afgana va tolta dal contesto ideologico in cui troppo spesso è stata collocata, e va piuttosto affrontata con serietà, competenza, e con le giuste risorse nei giusti capitoli di spesa (più addestramento, più affiancamento, più ricostruzione, più cooperazione civile, più diplomazia regionale).
Forse si può ora finalmente uscire dal falso dilemma restare/lasciare, e spostare l’attenzione dal “se” e “quando”, al “come” attuare una transizione che si preannuncia difficilissima. Sul dossier Afghanistan, la presenza di figure competenti come Di Paola alla difesa e De Mistura agli esteri sono, di per sé, garanzia di serietà. Allo stesso modo, sembra che il nuovo governo sia pronto a farsi carico con realismo e serietà di un’eredità non certo felice nei rapporti con la Libia.
Dopo il disastro dei baciamano e delle mille contraddittorie posizioni del governo Berlusconi, che avevano portato il nostro paese ad oscillare tra una vicinanza imbarazzante al regime ed una ridicola marginalità internazionale, l’Italia cerca di trovare un suo baricentro che le consenta di affermare che il futuro della Libia è e dev’essere piena responsabilità dei libici, senza per questo negare che alcuni specifici e complicati passaggi di questa nuova fase vanno sostenuti ed accompagnati, in piena trasparenza: sminamento, eliminazione dell’enorme quantità di armi presenti nel paese, costituzione e formazione delle forze di sicurezza, percorsi di riconciliazione nazionale e di institution building.
Infine, una piccola grande innovazione di merito. Il governo Berlusconi aveva frammentato il finanziamento delle missioni arrivando a decreti che coprivano anche solo due, tre mesi. Indice di una politica incapace di programmare nel medio periodo, e di dare quindi a militari, alleati e partner internazionali quella prevedibilità che in contesti di crisi si traduce in sicurezza ed affidabilità. Ma indice anche di un prevalere, sempre e comunque, delle scelte di Tremonti sulle priorità di altri ministeri – e con quali risultati, poi...
Il governo Monti, nel metodo, indica un ritorno alle migliori pratiche dei governi precedenti, con un finanziamento certo per le missioni internazionali che copre tutto il prossimo anno. È una piccola cosa, ma dà il segno di una solidità e di una serietà alla quale non eravamo più abituati.
Articolo pubblicato sul quotidiano "Europa" il 22 dicembre 2011
"Con l'arresto di Mladic si consegna finalmente alla giustizia un criminale di guerra colpevole di terribili atrocità, dando soddisfazione ai parenti delle vittime ma soprattutto chiudendo definitivamente una delle pagine più buie della storia europea. Da domani il cammino della Serbia verso l'integrazione europea sarà più spedito, e la riconciliazione avrà una chance in più. C'è da augurarsi che questo aiuti a sciogliere le tensioni che ancora animano, a tratti, la regione, e che la via dell'integrazione europea diventi quindi più rapida e più facile per tutti i paesi dei Balcani occidentali”.
E’ quanto dichiara Federica Mogherini, deputata PD e Segretario della Commissione Difesa della Camera dei Deputati.